Abdon.
Basta il nome, per quelli della mia generazione. Abdon era un mito silenzioso, il volto di una figurina, un grande re della fatica, subentrato a Dordoni (di sette anni più vecchio).

Abdon. Onomatopeico. Lento pede, volto di un uomo che sembrava più vecchio della sua età, occhi chiarissimi come una terra – l’Istria – che ha tutto: il cielo da scrutare in cima alla montagna, il mare da perdersi fino all’infinito!

Abdonpamich, abdonpamich… sembra di sentire il rumore di quegli scarpini, che accarezzano ogni selciato, si sollevano da terra, secondo le regole, metronomo dello sport, non prima di aver poggiato per terra l’altro, con quell’ancheggiare che non è per nulla vezzoso. È fatica.

Abdon, di Fiume, ancora non Rijeka (mai per lui, fuggito da… Tito a 13 anni insieme al fratello Giovanni), uomo di confine come di confine è la sua marcia, i 50 km. Esaltati fin dal suo primo Lugano Trophy, prologo del capolavoro olimpico, dopo il bronzo nell’ unica vacanza italiana dei cinque cerchi estivi, a Tokyo, capolavoro di sana testardaggine, oro a 31 anni, piegando la resistenza dell’inglese Nihill, per continuare i suoi trionfi fino agli Europei 1966, secondo titolo continentale, prima di due amare altre avventure olimpiche, contrassegnate da precarie condizioni fisiche a Messico ’68 e alla squalifica a metà gara a Monaco.

Cinque partecipazioni olimpiche, un eternauta. “Facile immaginare – diceva il maestro Roberto Quercetani – che in quel tempo abbia percorso più chilometri di chiunque altro. Aveva la caratteristica di partire prudente, emergere gradualmente, chiudere da protagonista.
Abdonpamich, il suono della tenacia, 90 anni in questo mese di ottobre. Auguri,

Diego Costa

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