IL SECOLO DI PRIMO NEBIOLO

L’archivio della parrocchia torinese di San Gioacchino, borgo Dora-Vanchiglia, riferisce della sua nascita avvenuta il 14 luglio 1923 da Secondo e da Giuseppina Verrua, originari di Scurzolengo.

Chi ne abbia curiosità, si rechi nella piccola località astigiana: un imponente falansterio ne conserva quanto resta dopo la scomparsa registrata alle prime ore della notte del 7 settembre 1999 nella Clinica romana Mater Dei.

Cadono cento anni esatti dalla comparsa di un uomo che per un trentennio impose la propria figura nel panorama dello sport italiano e mondiale. Gigante bifronte per potenza d’intuito e imbarazzante trasparenza di difetti, Primo Nebiolo aveva le proprie idee. Con esse, il cinismo per esigerne il rispetto. Dilatò le frontiere, sue e della disciplina rappresentata, usando ogni mezzo a portata d’intelletto.

Impose l’atletica con l’incenso e l’arroganza, modificandone sicuramente la pelle, e pure una frazione dell’anima. Disturbato dagli altrui successi, poco incline alla temperanza, fece il possibile per ridurne gli effetti.

Sfidò la più plateale delle impopolarità non cedendo d’un millimetro alla pretesa dei padroni del calcio, Gianni Agnelli in testa, di edificare gli stadi esosi di Italia ’90 senza il contorno delle corsie di atletica, segno di civiltà.

Aprì le pagine dei quotidiani fin nelle province più lontane. Diffuse nel mondo uno dei suoi fiori all’occhiello, le Universiadi. Portò i cinesi in Italia e gli italiani in Cina. Rese contemporanea la classicità di Claudia Testoni e di Ondina Valla, di Lanzi e Beccali, Missoni e Facelli, Maffei e Oberweger.

Per una finale di Coppa Europa, in una città deserta, aprì il Comunale sabaudo a novantamila spettatori. Inventò il Golden Gala ricucendo il boicottaggio di Mosca e, l’anno successivo, la nona corsia all’Olimpico per dare spazio alle maglie azzurre in Coppa del mondo. Intrecciò lotte memorabili con l’ottusità televisiva per strappare la diretta d’un Campionato di Società.

Blindò le porte ministeriali perché l’atletica avesse un ruolo prioritario nei programmi di educazione fisica. Dette spazio come nessuno ai Maestri dello sport, sostenendo tra l’altro in prima persona un Centro Studi invidiato in ogni consesso, convinto di come il processo evolutivo dell’atletica e l’apertura di nuove strade alla prima disciplina olimpica fosse un segno dei tempi.  

Estraneo a silenzi letterari e a divagazioni culturali, spese ventiquattro ore su ventiquattro nel difendere la propria creatura, potendo contare, va scritto, su collaboratori di livello, il meglio esistente nel panorama nazionale dell’epoca.

Trasferì la sede della Federazione internazionale da un anonimo ammezzato londinese alla sibaritica collocazione monegasca. Mise in atto un piano sistematico di interventi a favore di nazioni e località disagiate. Recò il messaggio vitale dello sport e dell’atletica tra le croci e le atrocità di Sarajevo, nella polveriera di Belfast e tra le terrificanti lacerazioni ambientali della sudafricana Soweto. Dando anima all’Associazione delle federazioni olimpiche, usò la clava per costringere l’impero esclusivo raccolto attorno ai satrapi del Cio a moltiplicare i finanziamenti spettanti al vero motore dell’attività sportiva mondiale.

I suoi anni migliori furono quelli antecedenti i Mondiali del 1987. Subito dopo, la verità della cronaca impone sottolineare come quella stessa splendida manifestazione fu l’occasione perché difetti ed errori venissero al pettine.

Per lungo tempo la bandiera issata come imbattibile trofeo divenne uno straccio indifendibile. Accerchiato dal fiato greve di avversari e sicofanti, l’Italia atletica ne divenne fatalmente orfana. Fu quello il momento in cui, preclusa la strada al vertice di un Coni molto attento a difendere spazi, e interessi, in vista dei mondiali di calcio, in un Foro Italico in cui fu sempre considerato come un ospite quando non come un intruso, Nebiolo fece del versante atletico internazionale il suo preminente campo di azione, trasformando un tracollo momentaneo in una inarrestabile dittatura.

Dei professionisti della politica aveva tutto, abilità, spregiudicatezza, capacità di mediazione e, ove necessario, di rottura. L’avemmo come uomo di atletica, e scrisse pagine di storia patria molto più dei Franchi, dei Carraro e dei Pescante. Lungo è il tempo per rimpiangerlo o, ove se ne abbia voglia, per confermarne le debolezze. Ma la traccia, in Italia e all’estero, è lì, inalterata.     

Augusto Frasca

(da Spiridon Italia del 5 luglio 2023)                                                                                      

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Facebook
Instagram