NON CONTA SE CADI, CONTA SE TI RIALZI.
Quando Vince Lombardi prese in mano il destino dei Packers, mediocre squadra di football americano, una squadra perdente, disse ai ragazzi più o meno una frase cosi: non conta se cadi, conta se ti rialzi.
Se i Giochi di Parigi restituiscono una volta di più all’ atletica azzurra l’immagine di una realtà quanto mai competitiva e forte, la (quasi) copertina di chiusura spetta al capitano.
Un Tamberi che continua a dipingere la fantastica tela che è la sua vita, costretto stavolta a usare tinte cupr buie, poi alla fine – a sogno infranto – neutre, invisibili.
L’aggettivo che usa: devastato. Ed è l’unico possibile.
Mentre in testa si riavvolge un film che poteva e doveva avere un Happy ending, vista la sceneggiatura che lui aveva scritto.
Una sceneggiatura in cui ha messo tutto sé stesso, tutto. Una sceneggiatura da cui è uscito talmente provato nel corpo da non aspettarsi questo tremendo scherzo del destino.
Il male è qualcosa che non puoi prevedere, non puoi vincere.
La gestione del male di Nadia, divina nella sua meravigliosa umanità, 24 ore prima del capitano, ha portato a un argento strepitoso, figlio di una semplice ma determinante sostanza, chiamata passione.
Il cuore, da cui deriva la parola coraggio, poche ore dopo non è bastato a Gimbo, ridotto a pelle e ossa, non un filetto di grasso da un rigoroso periodo di sacrificio che fa arrossire le più forti sfide dei monaci tibetani, dei francescani più osservanti.
Un cilicio che Gimbo ha vestito per mesi, segnando come Robinson Crusoe i giorni su un bastone. Aspettando.
Il film olimpico è stato malvagio con lui, oggi il segnale dell’ anello perduto nella città dell’ amore si riveste di un presagio cattivo e ingiusto. Prima del dolore, del male, della febbre.
Prima della gara, affrontata per spirito di servizio, perché – come Annibale – un grande condottiero è il primo a entrare in battaglia e l’ultimo a uscirne.
Il capitano è devastato. Ed è vero. Ma se si affaccia da una finestra immaginaria della Ville Lumiere, sull’Italia, vedrà ognuno di noi che lo comprendiamo e lo amiamo nella salute e nella malattia, perché indissolubilmente sposati alla sua immagine pubblico sportiva, ci vedrà saliti su un tavolo, in piedi, mentre ci rivolgiamo a lui: o capitano, mio capitano, viene da dire a Gimbo.
Aspettando che il suo enorme cuore di campione sincero ritrovi il sangue da pompare, il battito animale, per regalarci un’uscita di scena più giusta e calzante con la sua vera dimensione.
Foto Grana/Fidal
Diego Costa